Sull’argomento del mercato dei c.d. prestiti sub-prime (cioè concessi a clientela di qualità creditizia non elevata) nell’ambito del settore abitativo, concordo con quanti ricordano che tale mercato non è di dimensioni significative rispetto a quello complessivo dei mutui residenziali negli Stati Uniti. I prestiti sub-prime, infatti, contano solo per poco più del 10% del complesso dei mutui ipotecari e solo per il 3% dei prestiti bancari commerciali totali. Gli investitori si sono però ugualmente focalizzati nella ricerca di notizie negative sul comparto (aumento dei deliquencies, grave deterioramento delle condizioni finanziarie o anche fallimenti di società più o meno piccole) in grado di giustificare un allargamento dei relativi spread creditizi.
In realtà l’impatto di tali notizie è – a mio avviso – più di tipo indiretto, ovvero concerne maggiormente la possibilità di influenzare gli standard in uso per la concessione di prestiti a livello generale (non solo nel comparto sub-prime), e questa eventualità potrebbe davvero avere un impatto più ampio sui mercati finanziari. Una fase di contrazione nella concessione dei crediti (c.d. credit crunch), infatti, è il rischio più grande in cui incorrono gli Stati Uniti, soprattutto in una fase come l’attuale, connotata da condizioni monetarie restrittive, prezzi delle case che tendono ad essere stabili, se non a calare, ed infine, mercati azionari volatili che potrebbero depauperare la ricchezza patrimoniale delle famiglie.
Il problema, in ultima analisi, ha a che fare con la fiducia e con la percezione della fiducia nei confronti del sistema creditizio, che forse neanche la Fed potrebbe modificare anche effettuando un intervento espansivo sui tassi di riferimento.